Sono trascorsi ormai due anni da quando improvvisamente siamo stati catapultati in questa situazione di emergenza, la quale non ha risparmiato nessun settore, sia lavorativo sia della società. Sembra scontato affermare che tutti quanti siamo stati colti impreparati nell’affrontarla, partendo dai primari di ogni reparto fino agli addetti alle pulizie, dell’esistenza dei quali peraltro solo con molto ritardo il mondo si è accorto, e di quanto valore e importanza avesse avuto il loro lavoro. Sfruttati fino al midollo e mal pagati mentre tutti cercavano gli eroi da osannare.
Mai ci era capitato di dover assistere a una situazione di emergenza di tale portata. Milioni di pensieri sono passati per la testa. Una cosa è certa, ci sono stati aspetti legati a questa situazione che sono passati come secondari ma che tuttavia, a emergenza terminata, si paleseranno inevitabilmente ancora di più in ognuno di noi: è l’aspetto psicologico che molti lavoratori, chi più chi meno, si sono trascinati dietro e continueranno a farlo per chissà quanto tempo.
Non è passato giorno che molti colleghi ti abbiano chiamato per segnalarti casi positivi tra pazienti e operatori sanitari nei reparti. Non è passato giorno che ti siano state segnalate le difficoltà che tanti colleghi hanno riscontrato nel loro lavoro quotidiano. Non è passato giorno che come delegati sindacali abbiamo ricevuto decine di chiamate di colleghi e compagni disperati che non sapevano come fare. Il senso di impotenza è stato molto forte in quanto nemmeno tu sapevi come poter gestire la situazione. Ci sono stati momenti in cui non sapevamo cosa consigliare perché avevi già fatto tutto quello che ti era stato possibile fare. Eppure il senso di responsabilità che tutti noi abbiamo avvertito non ci ha dato tregua a differenza di chi avrebbe dovuto averne “per ruolo istituzionale”.
Per due anni lo Stato e le aziende mentre emanavano decreti, disposizioni e regole hanno abbandonato gli operatori a loro stessi. La mancanza di dispositivi di sicurezza, almeno nel primo anno, è stata una costante, poi l’emergenza ha messo in evidenza cosa hanno rappresentato anni di tagli e devastazioni del sistema sanitario. Doppi turni massacranti e con la consapevolezza di non poter sapere come saremmo tornati a casa è stata una condizione devastante. Il personale sanitario si è ridotto allo stremo, distrutto fisicamente e mentalmente, in alcuni casi si è registrato persino il ricorso all’uso di farmaci per poter dormire qualche ora tra un turno massacrante e quello successivo, quando i pensieri non riuscivano a staccarsi da quanto vissuto. In più occasioni è capitato di incontrare compagni che ti abbiano raccontato di vedere colleghi di lunga esperienza piangere, pazienti sistemati nei corridoi, persone sole lontane dai loro affetti: il coronavirus fa morire da soli.
Come puoi non tenere conto del fatto che dall’inizio dell’emergenza a oggi sono circa 3000 gli operatori sanitari contagiati, senza nessuna o con inadeguata protezione. È in questi frangenti che pensi a quelle colleghe infermiere di soli 49 e 34 anni accomunate dal fatto che entrambe abbiano deciso di togliersi la vita. Quali pensieri gli saranno passati per la testa possiamo solo immaginarlo. Cerchi di capire quale potesse essere stato quell’impulso e il loro stato d’animo per arrivare a compiere un tale gesto. È in questi frangenti che condividi e ammiri quanto fatto dalla nostra collega Claudia del San Raffaele di Milano oppure da quella infermiera marchigiana che scrivendo a Conte ha rifiutato la mancia di 100 euro, sostenendo che il lavoro e la vita valgono molto di più.
Fin dai primi giorni di pandemia, così come ogni organizzazione sindacale, abbiamo provveduto a inviare lettere di protesta e di richiesta di sicurezza per i lavoratori. Abbiamo denunciato la mancanza di sicurezza con cui molti lavoratori della sanità sono stati costretti a lavorare ogni turno, ogni giorno. Abbiamo inviato lettere all’assessore regionale alla sanità, ai sindaci del comprensorio e alle aziende. Lettere talmente dure da aspettarci una querela. È davvero umiliante non aver ricevuto nemmeno una risposta. Le direzioni aziendali sono state pressoché assenti e spesso è accaduto, come abbiamo visto in più occasioni, pure che abbiano messo in atto sistemi di repressione se solo ti permettevi di parlare ed evidenziare le lacune e le carenze organizzative create da essi stessi.
I lavoratori della sanità non si sono sentiti protetti in alcun modo, nemmeno da chi non avrebbe dovuto avere la minima difficoltà a farlo. La pandemia ha portato alla luce le conseguenze di anni di definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, con tagli di posti letto e personale, impoverimento dei servizi territoriali e di prevenzione, esternalizzazione dei servizi soprattutto per anziani e disabili, come RSA, RSD, ricorso massiccio al privato soprattutto per la diagnostica e la chirurgia di elezione e per tutto quello che fa business, processo favorito dalle assicurazioni private e dal welfare aziendale introdotti nei contratti di lavoro. Quante volte e per quanti anni è stato fatto!
Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è indirizzata a rincorrere la polemica vaccini SI/vaccini NO, il percorso di privatizzazione della Sanità Pubblica corre sempre più veloce, con il suo strascico corruttivo delle lobbies finanziarie, assicurative e farmaceutiche. In molti hanno sperato che le conseguenze dell’evento pandemico da SARS-CoV-2 fossero state tali da indurre un ripensamento verso le politiche che hanno devastato le tutele sanitarie. Molti pensavano che il modello lombardo, tanto decantato per la sua eccellenza presto smentita dalla realtà pandemica, avendo mostrato il suo fallimento, portasse a un arretramento delle scelte mercantili sulla sofferenza e sulla malattia. Non è stato così: le stesse previsioni del tanto decantato PNRR dimostrano una volontà diversa.
Se all’inizio della pandemia tutti hanno gridato a gran voce che niente sarà come prima, passata la fase acuta la sanità non è nuovamente annoverata fra le priorità del governo. Anche con il PNRR il finanziamento previsto per la sanità coprirà poco più della metà di quanto perso negli ultimi 10 anni: sono previsti 19 miliardi a fronte dei 37 persi ma nella destinazione anche di queste risorse si parla molto di digitalizzazione, innovazione tecnologica e non di capitale umano, elemento fondamentale e vincolante per garantire un servizio sanitario pubblico, universale e gratuito.
Quello che è certo, al di la di tutto, è che ci troviamo di fronte a una gestione criminale da parte dei governi e dello Stato. Quello che possiamo e dobbiamo fare è quanto meno auspicare una migliore riflessione su tutti gli eventi trascorsi: i lavoratori della sanità piacciono e suscitano interesse solo quando muoiono. In piena epidemia i lavoratori sono stati mandati a morire, si sono ammalati gravemente, hanno contagiato i loro familiari e sono stati costretti ad assistere i malati senza protezioni adeguate. Chi ha osato denunciare le condizioni di lavoro in cui operavano è stato sospeso e perseguito. Ricordiamo le interviste di spalle o a volto coperto e i dirigenti, incarogniti, (fedeli all’azienda ma non ai pazienti e dipendenti) che cercavano di stanare i “rei” di alto tradimento.
Coloro che declinano l’imposizione vaccinale vengono ora sospesi senza stipendio, vilmente ricattati, nonostante abbiano sempre svolto il loro lavoro con diligenza e competenza. Criminalizzati, nonostante sia accertato che anche i vaccinati possono contagiare, sia pure in misura minore. Questi lavoratori subiscono da decenni i tagli alla sanità pubblica: ritmi di lavoro estenuanti, un costante demansionamento di comodo. Le mancate assunzioni stabili hanno ridotto il personale all’osso, tanto da vedersi negare le ferie programmate. Non è permesso loro nemmeno pensare! Devono accettare in modo acritico qualsiasi direttiva dettata da un sistema sanitario gestito in modo privatistico e slegato dalla cura della persona come interesse primario. Non è permesso loro denunciare carenze e inadempienze delle dirigenze, non è permesso loro avere dubbi o paure verso trattamenti sanitari che riguardano il loro corpo.
Lunedì 11 ottobre in occasione dello sciopero generale del sindacalismo conflittuale i lavoratori della sanità, assieme agli altri di tutte le categorie hanno l’occasione di urlare la propria rabbia nei confronti di uno stato che li ha mandati al massacro. I lavoratori della sanità avranno l’occasione di ribadire a gran voce che vogliono più risorse per il servizio sanitario pubblico a garanzia del diritto alla salute (assunzioni, stabilizzazioni, reinternalizzazioni, accessibilità, qualità, gratuità, prossimità, consultori, ecc.), tutela della sicurezza e miglioramento delle condizioni di lavoro, gratuità e universalità effettiva del sistema, di un contratto unico per la sanità che raccolga pubblico e privato ponendo fine alle discriminazioni.
Corrado – USI Sanità